L’esposto per la morte a 46 anni in Friuli.
Se l’infezione gli fosse stata diagnosticata prima, se i sintomi che presentava fossero stati “colti”, si sarebbe potuto salvare? Questa l’accorata domanda che la moglie di un uomo di soli 46 anni, di Polcenigo, deceduto il 27 aprile in ospedale a Pordenone dopo una via crucis di cinque mesi, ha posto all’autorità giudiziaria tramite un esposto presentato ai carabinieri l’indomani della tragedia.
La donna si è rivolta ed è assistita da Studio3A. La drammatica vicenda, al di là del fatto che vengano o meno riscontrate responsabilità dei sanitari, mette in luce quanto in quest’ultimo anno sia stata sacrificata l’assistenza ai pazienti dalla medicina di base e dalle strutture ospedaliere, totalmente assorbite dalla lotta al Covid.
P. Z., operaio specializzato, a fine novembre 2020 inizia ad accusare forti dolori alla schiena. Si rivolge al medico di famiglia che, ipotizzando un problema muscolare, gli certifica alcuni giorni di malattia dal lavoro e gli prescrive un tampone, negativo. Nei giorni seguenti il dolore non cessa e il quarantaseienne è costretto ad accedere al Pronto Soccorso di Sacile dove, dopo le radiografie, gli riscontrano una broncopolmonite, prescrivendogli una cura antibiotica con un ciclo di iniezioni e dandogli appuntamento dopo un mese per una lastra di controllo. Alla quale il paziente poi si sottopone e da cui si evidenzia “qualcosa” a detta degli stessi medici, che però riconducono la traccia a una “cicatrice” lasciata dalla broncopolmonite guarita.
L’operaio però continua a non stare bene, rientra al lavoro ma è costantemente spossato, soffre di malessere diffuso. Torna a rivolgersi più volte prima al sostituto del suo medico di base, costretto ad assentarsi perché risultato positivo al coronavirus, e poi anche a quest’ultimo dopo il suo rientro, ma le prescrizioni sono sempre le stesse e per lo più senza visite “in presenza”, ma solo “per telefono”: ulteriori giorni di malattia e l’esecuzione di altri tamponi tutti negativi. In vero gli vengono prescritti anche gli esami del sangue da cui risulta anemico con un tasso elevato di globuli bianchi, ma il suo dottore insiste: è tutto nella norma.
L’insoddisfazione del quarantaseienne per come viene seguito è tale che decide di cambiare medico di famiglia, ma anche con la nuova dottoressa le cose non migliorano. E anche lei, dopo altri esami del sangue che confermano l’anemia, sostiene che non c’è nulla di cui preoccuparsi. A fronte del persistere della spossatezza e del malessere, il paziente allora si reca al pronto soccorso di Pordenone dove gli somministrano una flebo di vitamina B12 e lo rimandano a casa. Ma l’uomo vi fa presto ritorno con la moglie e dietro varie insistenze una dottoressa, esaminando la sua documentazione clinica, riscontra alcune problematiche cardiache.
Finalmente, il 17 marzo scorso, P. Z. viene ricoverato in ospedale a Pordenone e sottoposto a diversi esami e accertamenti che evidenziano il motivo di tanta spossatezza: gli viene diagnosticata un’infezione da enterococco, con un nido attorno alla valvola aortica che era stata “sfiancata”. Il paziente passa nel reparto di Chirurgia, poi in Cardiologia e infine in Unità coronarica, ma il suo quadro clinico è ormai critico perché l’infezione era già presente fin da novembre, era stata dunque oggetto di errata diagnosi, e il batterio si era esteso al cuore e al fegato, in setticemia, raggiungendo anche i reni.
Non potendo sottoporlo a intervento cardio-chirurgico proprio per il suo quadro clinico compromesso, i medici tentano una cura antibiotica, ma la terapia non dà gli esiti sperati, anzi, subentra un’ulteriore infezione a seguito dell’inserimento del catetere. La moglie chiede di profondere il massimo sforzo per salvare il marito, ha l’impressione che sia abbandonato dai sanitari, ma le rispondono che non c’è il personale sufficiente per fare di più. Dopo Pasqua le sue condizioni precipitano, fino al recente, tragico epilogo.
Sconvolta dalla prematura morte del compagno di una vita, molto perplessa sull’adeguatezza delle cure e sulle pratiche assistenziali prestategli, e tormentata dal dubbio che, se l’infezione insorta fosse stata diagnosticata e curata da subito, suo marito avrebbe potuto farcela, la donna, attraverso il consulente legale Riccardo Vizzi, si è affidata a Studio3A-Valore S.p.A., società specializzata livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini, ed è stata presentata appunto una denuncia querela nella quale si chiede alla magistratura di accertare eventuali responsabilità in capo ai sanitari che hanno avuto in cura il paziente disponendo un esame autoptico sulla salma, che ovviamente non è ancora stata sepolta, per chiarire le cause del decesso, nonché il sequestro di tutte le cartelle cliniche.