La sentenza del tribunale di Gorizia.
Pronunciate le condanne per i tre imputati al processo sul traffico illecito di rifiuti al capannone dell’ex stabilimento Bertolini di Mossa. Una sentenza articolata quella del giudice monocratico Concetta Bonasia che ha determinato le condanne e le sanzioni pecuniarie, oltre alla confisca dei beni e il risarcimento.
Nello specifico si parla di 2 anni per Piero Pelizzon, 40 anni di Gorizia, 1 anno e 4 mesi per Giuliano Di Nardo, 49 anni di Grado, e 6 mesi, in continuità alla condanna della sentenza di Milano, per Alessio Dalla Santa, 45 anni di Belluno. In più, a carico dei tre imputati, è previsto il ripristino dello stato ambientale, una sanzione di 90 mila e 300 euro per la società coinvolta Promogestin Immobiliare, di Di Nardo, e Pelizzon Srl, di Pelizzon, e una confisca di tutti i beni dal valore di circa 202.393 euro.
Per questo riguarda i risarcimenti sia la Regione che il Comune di Mossa ha avanzato le rispettive richieste di risarcimento, che il tribunale ha accolto. La Regione ha chiesto 305 mila euro per i danni di immagine e per le attività di smaltimento e trattamento dei rifiuti trovati. Il Comune ha fatto domanda di 40 mila euro per il ripristino dell’area e gli atti amministrativi.
I fatti.
Tutto era emerso con il blitz dei carabinieri che hanno portato alla luce il traffico di rifiuti speciali provenienti dalla Slovenia e stoccati a Mossa. All’epoca erano scattati sei arresti. Erano finiti in manette, oltre a Pelizzon, Di Nardo e Dalla Santa, Claudio Paoluzzi, 57 anni, Fiorenzo Giorgio Cammarata, 57, e Remo Dalla Santa, 52 anni e fratello di Alessio. Per loro il tribunale di Trieste aveva deciso per dei patteggiamenti da 2 a 3 anni.
Secondo il pm Federico Frezza, Pelizzon e Di Nardo erano venuti a sapere che nel capannone venivano trattati i rifiuti speciali, ma non avevano fatto denuncia. Da parte dei difensori i due imputati avevano solo concesso la disponibilità del capannone e per forza di cose non potevano agire. Per di più, non risultano esserci dei collegamenti, telefonate o pagamenti, con i viaggi delle “ecoballe” provenienti dalla Slovenia. Anzi, gli avvocati difensori hanno sostenuto che l’ipotesi oscura della presenza dell’ecomafia sia stata fondata su collegamenti particolari inesistenti.