Il patteggiamento per la morte di Donato Maggi.
Ha patteggiato un anno, 9 mesi e 10 giorni, con la sospensione condizionale della pena, D.T., 70 anni, di Precenicco, dirigente e responsabile di cantiere di una ditta di Porpetto e uno dei due imputati per la tragica morte bianca di Donato Maggi, l’operaio rimasto folgorato a soli 37 anni, il 7 agosto 2018, in un cementificio. I familiari di Maggi sono assistiti da Studio3A-Valore Spa, in collaborazione con l’avvocato Marco Frigo, del Foro di Padova.
Nell’udienza di oggi, avanti il giudice monocratico di Pordenone, è stata anche ritirata la costituzione di parte civile da parte dei congiunti della vittima a fronte del fatto che sono stati parzialmente risarciti (con un acconto) dall’impresa per la quale Maggi aveva appena iniziato a lavorare. Un importante passo avanti per le loro richieste di verità e giustizia, anche se, per ottenere il risarcimento integrale, si dovrà avviare un’azione civile nei confronti della stessa azienda, la quale poi chiamerà in causa la sua compagnia assicurativa, che si è incomprensibilmente rifiutata di manlevare i propri assicurati e di liquidare qualsivoglia somma, non aderendo ad alcun tentativo od accordo stragiudiziale.
E anche se il procedimento non finisce qui. Hanno infatti deciso di affrontare il processo l’altro indagato, il titolare A.B., 51 anni, di Latisana, e la stessa azienda, rinviata a sua volta a giudizio in quanto soggetto giuridico, motivo che a maggior ragione avrebbe dovuto spingere la compagnia assicurativa a dare un segnale di collaborazione e assunzione di responsabilità. È già stata fissata per il 28 gennaio 2021 la prossima udienza per l’audizione dei testi del Pubblico Ministero titolare del fascicolo penale per i reati di omicidio colposo con l’aggravante di essere stato commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, Federico Facchin.
L’infortunio aveva destato vasta eco, anche perché l’operaio era al suo primo giorno, anzi, alla sua prima ora di lavoro. Maggi, originario di Carosino in provincia di Taranto, e che, dopo essersi sposato, da soli 5 mesi, si era stabilito a Ragogna, era stato assunto con contratto a tempo determinato (dal 7 agosto all’1 settembre) da un’agenzia interinale, in somministrazione di lavoro a un’altra azienda, con la qualifica di operaio e per la mansione di manutenzione impiantistica. Come però è emerso dalle indagini degli esperti della Struttura complessa di “Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro” dell’Asl 5 Friuli Occidentale, il lavoratore non aveva alcun attestato di formazione specifica in materia di sicurezza sul lavoro e non vi erano evidenze circa l’avvio ai relativi corsi: nel suo contratto di assunzione l’allegato relativo all’identificazione dei rischi per la salute non era compilato in alcuna voce di rischio e, soprattutto, la sua esperienza nel settore delle manutenzioni era limitata a due mesi di attività.
Quel giorno però Maggi, appena giunto sul posto di lavoro, alle 7.45, viene subito mandato all’interno di una cabina di trasformazione del cementificio: l’incidente accade alle 8.05. La ditta per la quale Maggi lavorava in somministrazione aveva ricevuto l’incarico dalla proprietaria del cementificio di realizzare una struttura atta a rimuovere il trasformatore trifase posto all’interno della cabina: come da sopralluogo effettuato il giorno prima, il personale della ditta avrebbe dovuto visionare la parte sottostante del pavimento flottante togliendo alcune mattonelle e prendere le misure onde decidere la metodologia e realizzare eventuali strutture per la rimozione del trasformatore, programmata per il 16 agosto.
Il responsabile del cantiere, che doveva occuparsi del lavoro con Maggi, tolte le mattonelle, ha ordinato al 37enne di iniziare a smontare le coperture del trasformatore, che risultava ancora sotto tensione, consegnandogli chiavi inglesi e un avvitatore elettrico specifici per la bulloneria dello stesso: operazione che però non solo Maggi ma nessun dipendente della avrebbe dovuto effettuare, in quanto la convenzione con la Buzzi riguardava lavori unicamente di natura meccanica e i protocolli di sicurezza di quest’ultima prevedevano l’intervento della propria squadra di elettricisti ogni qual volta fosse necessario compiere lavori anche ispettivi su impianti normalmente in tensione, come nello specifico. Sul trasformatore poi campeggiava una targhetta con su scritto “Prima di togliere le protezioni accertarsi che il trasformatore sia staccato dalla rete di alimentazione”.
Purtroppo Maggi, di fronte all’ordine del superiore, ha proceduto, e quando il collega, assentatosi per qualche minuto, è tornato alla cabina, ha trovato l’operaio accasciato sul trasformatore con l’addome appoggiato sui radiatori. Inutili i tentativi di rianimarlo, anche da parte dei sanitari del Suem, subito allertati e sopraggiunti alle 8.32 dal pronto soccorso di Maniago, che hanno eseguito le manovre di rianimazione fino alle 9.26 e a cui non è rimasto che constatare il decesso. Anche alla luce dei bulloni trovati già rimossi dalle piastre laterali del trasformatore, c’è voluto poco per concludere che Maggi, nello svitarli, era entrato in contatto con parti in tensione elettrica che gli hanno cagionato una elettrocuzione fatale, con conseguente arresto cardio circolatorio, come confermato dall’autopsia disposta dalla Procura e affidata a Barbara Polo Grillo: alle operazioni peritali, come consulente di parte per la famiglia, ha partecipato anche la Elisa Polonia messa a disposizione da Studio3A-Valore Spa, società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini a cui si sono affidati i familiari della vittima, attraverso il responsabile della sede di Udine Armando Zamparo e l’Area Manager Luigi Cisonna.
A fronte di tali risultanze, Facchin, al termine delle indagini preliminari, ha chiesto il rinvio a giudizio per i due imputati, in quanto titolare di fatto e datore di lavoro, accusati di aver causato la tragedia “per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia nonché violazione delle norme disciplinanti la prevenzione degli infortuni sul lavoro”. A D.T. si imputa di “aver adibito il lavoratore a svolgere un lavoro non elettrico in prossimità di parti in tensione”; ad A.B. “di averlo adibito a svolgere un lavoro in un contesto (una cabina elettrica) del quale disconosceva i pericoli potenziali nonché i rischi specifici che connotano i lavori di manutenzione impiantistica, nonché senza averlo informato e formato prima dell’avvio della mansione”. Il Pm ha chiamato in causa nel processo anche l’impresa.
Il Gip del tribunale di Pordenone, Rodolfo Piccin, nell’udienza preliminare del 15 giugno, poi, aveva rinviato a giudizio tutti gli indagati rifiutando qualsiasi “sconto” o sospensione. Il resto è storia di oggi.