La testimonianza di Joshua Cassani.
Risposte vaghe, poche informazioni e tanta confusione. Questo è quanto ha riscontrato Joshua Cassani, 23 anni di Gorizia, che proprio in questi giorni si trova in quarantena perché risultato positivo al covid. Isolamento che però doveva iniziare già i primi di gennaio, quando ha scoperto di aver preso il virus. La gestione del suo caso è stata molto complessa, così come hanno lamentato in molti, tanto che ad un certo punto Joshua non ce l’ha fatta e ha reso pubblico tutto il malcontento. “Stanno organizzando male e non c’è informazione – afferma Cassani – ti dicono le cose all’ultimo, quando poi non puoi fare più niente”. Ma procediamo con ordine.
Il caso.
Joshua aveva iniziato a sentirsi poco bene l’1 gennaio, ma non ci aveva fatto molto caso. La situazione infatti è peggiorata il giorno dopo: “Avevo un fortissimo mal di testa, diverso dal solito – racconta Joshua – così ho chiamato il numero unico delle emergenze, il 112, per sentirmi dire che non sapevano aiutarmi e che non potevano visitarmi“. Il personale sanitario gli ha quindi fornito un altro numero, quello per le emergenze minime. “A quel punto mi ha risposto un medico, molto bravo e gentile, che mi ha detto che probabilmente avevo un’emicrania e di prendere la tachipirina”, continua Joshua. Il 3 gennaio l’amara scoperta: Joshua fa un test rapido a casa e risulta positivo al covid.
Il pensiero di Joshua è stato subito quello di chiamare il proprio medico di base. “Non è stato per niente d’aiuto: pensavo che mi dicesse che mi avrebbe visitato o che mi chiedesse di mandargli la foto del test positivo – spiega Joshua – perché io per Asugi risultavo solo un ammalato, non positivo al covid”. Un dettaglio che però risulta fondamentale: essendo considerato “solo un ammalato”, poteva infatti uscire di casa e spostarsi liberamente. Dopo un po’ di giorni Joshua aveva di nuovo avvertito un forte mal di testa, tanto che a chiamare l’ospedale è stata sua madre. “Come prima ha risposto il medico della scorsa volta – racconta Joshua – che mi ha detto di prendere di nuovo una tachipirina“.
Il tampone.
Passano i giorni e Joshua viene a sapere che non risulta essere nella lista dei positivi covid di Asugi. A quel punto la decisione di fare il tampone in farmacia: “Ho chiamato chiedendo di fare un test, ma per telefono mi hanno detto che la prima disponibilità sarebbe stata dopo 10 giorni – racconta Joshua – così ho deciso di coprirmi per bene e andare di persona”. Appena si è presentato in farmacia e ha chiesto di fare il tampone, lo hanno subito eseguito. Solo una volta confermata la positività dalla farmacia, Joshua ha ricevuto la chiamata di Asugi dove gli veniva detto che da quel momento era in quarantena.
“Il 12 gennaio mi hanno chiamato per fare il tampone e se sono negativo posso tornare al lavoro – afferma Joshua – in caso contrario, mi hanno detto di stare a casa fino al 21 e che poi posso uscire anche se sono positivo“. Questo infatti perché dopo così tanto tempo la carica virale non dovrebbe essere più potente come all’inizio e quindi non ci sarebbe più il rischio di infettare altre persone.
Il lavoro.
Se la situazione è già difficile da gestire di suo per la carenza di supporto da parte degli organi preposti, quello che preoccupa Joshua è anche il rapporto con il lavoro. “A causa di questa situazione non potevo dire con esattezza al mio datore di lavoro quando sarei potuto tornare operativo – continua Joshua – adesso ho dovuto dire che se il 12 sono negativo, potrò tornare a lavorare, se sono positivo bisogna aspettare fino al 21″. Però non bisogna dimenticare che Joshua aveva scoperto di essere positivo già i primi di gennaio, che si era imposto la quarantena fin dai primi sospetti mentre quella ufficiale era partita molto più tardi.
Poco supporto.
Non essere nella lista covid di Asugi, giorni di malattia per il lavoro, a far rabbia è stato anche un altro “capitolo”, quello relativo alla famiglia. “A tutto questo, si aggiunge anche come hanno gestito la situazione di mia madre. Lei è tornata dopo di me a casa e non avevamo avuto contatti, quindi di fatto poteva stare cinque giorni in quarantena e poi farsi il tampone e se negativa andare a lavorare – racconta Joshua – invece nessuno ce lo ha detto e adesso anche mia mamma è chiusa in casa con me e non può lavorare“.
“Poi, quando Asugi ci ha chiamato per comunicarci il giorno del tampone molecolare, ci aveva dato due giorni diversi – continua Joshua – ma io non ho la patente, mia madre non ha la macchina e ho chiesto se potessimo almeno farlo lo stesso giorno e se magari poteva passare loro“. A questa domanda un sonoro “no” da parte di Asugi, che ha replicato che bastava trovare qualcuno e farsi portare in auto, perché stando seduti dietro non c’era il rischio di infettare.
“Sinceramente, io ho paura di chiedere a qualcuno un passaggio: avevamo pensato a mia sorella, ma avendo lei dei bambini molto piccoli, non era il caso”, lamenta Joshua. Alla fine hanno trovato una soluzione: la sorella lascerà la sua auto e Joshua con sua madre si recheranno a fare il tampone. “È una fortuna però che mia sorella ha due auto – afferma Joshua – non voglio pensare a chi è solo. Il covid poi causa molta stanchezza: mi chiedo come fanno mettere alla guida qualcuno? Io, per dire, dopo due scalini mi sento molto affaticato ed è un tipo di stanchezza diverso da quella normale”.
La rabbia di Joshua sta quindi nel sostegno, quasi del tutto mancante, da parte di chi invece in una situazione simile ci si aspetti che aiuti e tuteli il cittadino. “Sono sconcertato che una persona che sta male si debba arrangiare – conclude Joshua – così come sono senza parole dal fatto che anche il mio medico di base mi diceva di prendere dei farmaci senza visitarmi, pur sapendo che ho dei problemi con alcuni medicinali”.